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Leonardo Pisano e la matematica
del Duecento
ricerca
condotta dalle alunne della VD
Serena De
Benedetto Maria Gabriella Iandoli Nicole Veria
Rosato Sara Scarfò Silvia
Zeccardo
coordinate dal
docente Antonio Tropeano
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articolo cliccare sull'allegato file PDF
02_FIBONACCI.pdf
Leonardo Pisano,
filio bonacj, noto, poi, come Fibonacci nacque a Pisa nel 1170 ca e morì
nella stessa città intorno all’anno 1240. Suo padre Guglielmo era
publicus scriba pro pisanis mercatoribus(ovvero segretario della
repubblica di Pisa) e responsabile a partire dal 1192 del commercio
pisano presso la colonia di Bugia(attuale Algeri).Alcuni anni dopo il
1192 condusse suo figlio con lui a Bugia perché voleva che divenisse un
mercante e così fece. Provvide affinché fosse istruito sulle tecniche
del calcolo, specialmente quelle che riguardavano le cifre indo-arabiche,che
non erano ancora state introdotte in Europa.In seguito Bonacci si
assicurò l’aiuto di suo figlio per portare avanti il commercio della
repubblica pisana e lo mandò in viaggio in Egitto, Siria, Grecia,Sicilia
e Provenza. Leonardo colse l’opportunità offertagli dai suoi viaggi
all’estero per studiare e imparare le tecniche matematiche impiegate in
queste regioni. Intorno al 1200, Fibonacci tornò a Pisa dove per i
seguenti 25 anni lavorò alle sue personali composizioni matematiche. In
tutta la sua produzione l’opera più importante è il “Liber Abaci”,
comparso intorno al 1228, anche se composto nel 1202. Questo ampio
trattato è diviso in 15 capitoli. Il testo si presentava come
un’autentica novità nel panorama della scarsa pubblicistica matematica
dell’epoca. I suoi contenuti infatti sono mutuati quasi interamente
dalle opere di matematici arabi, la maggior parte delle quali
sconosciute nel mondo occidentale. Le motivazioni che avevano spinto
l’autore a compilare tale opera lo dichiara lui stesso nell’introduzione
del suo lavoro: ha voluto rendere partecipe la “gens latina”
dell’uso delle cifre indoarabiche e delle loro utilissime applicazioni.Un
esame anche rapido delle condizioni socio-economiche dell’epoca rivela
che l’opera di Fibonacci rispondeva davvero a reali esigenze. A partire
dall’anno Mille, infatti, le condizioni economiche e sociali dell’Italia
avevano subito una notevole evoluzione. La ripresa dell’attività
mercantile verso l’Oriente di alcune città costiere quali Venezia, Pisa,
Genova e Amalfi, favorita anche dalle crociate, impose l’Italia quale
ponte naturale per il commercio fra le regioni del Nord Africa e del
Vicino Oriente e quelle del Nord Europa. Così i mercanti italiani
divennero il tramite tra i mercati Sud-Orientali e quelli nordici.Durante
il XII secolo l’organizzazione del commercio si avvia ad un’evoluzione
che si compie completamente nel secolo successivo. I mercanti da
itineranti divennero sedentari; smisero di viaggiare assieme alle loro
merci che furono affidate a compagnie di trasporto. Un’organizzazione di
commercio come questa richiedeva anche la tenuta di libri contabili in
cui registrare tutto il movimento delle merci e del denaro.Un mercante e
i suoi impiegati dovevano dunque saper leggere, scrivere e far di conto
con estrema abilità e prontezza; da qui nasce la necessità di scuole per
la preparazione degli addetti al commercio. In un primo tempo
l’istruzione della classe mercantile era affidata alle scuole
ecclesiastiche, in cui si insegnava a leggere e scrivere in latino e si
impartivano nozioni di matematica elementare, limitate alla scrittura
dei numeri con il sistema romano e all’uso di tavolette e gettoni, i
cosiddetti abaci, per eseguire le operazioni aritmetiche. La complessità
e il gran numero di calcoli relativi alle numerose transazioni
finanziarie ed alla tenuta dei libri contabili rendeva l’uso delle cifre
romane e dell’abaco del tutto inadeguati. Assai più agevole invece era
il sistema di calcolo impiegato dagli Arabi. Sulla scia
dell’insegnamento e della fusione del trattato di Fibonacci sorsero ben
presto in Toscana e nel centro e nord Italia scuole d’abaco, che
nella maggior parte dei casi erano organizzate e finanziate dai comuni e
quindi dalla classe mercantile che li reggeva.
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L’insegnamento
della matematica nel tre-quattrocento:
a)scuole,maestri e trattati d’abaco
b)programmi e
metodi d’insegnamento
Le scuole d’Abaco
venivano dette anche botteghe d’Abaco. Questa denominazione sottolinea
il carattere pratico che si attribuiva alla formazione matematica da
esse fornita. Anche l’appellativo maestri d’abaco, dato agli insegnanti
di queste scuole, si ricollega alla nomenclatura relativa alle botteghe
artigiane. L’uso della parola “abaco” per indicare queste scuole e
questi insegnanti può generare nel lettore moderno qualche confusione,
giacchè con essa si indica di solito uno strumento per calcolare. Si
potrebbe quindi pensare che in esse venisse insegnato l’uso di un tale
strumento, mentre vi si apprendeva, al contrario, un metodo per evitarne
l’uso. Vi si imparava infatti il modo di far di conto con le cifre
indoarabiche e le sue applicazioni all’arte del commercio. Si può
ipotizzare che la parola abaco, introdotta da Fibonacci nel titolo del
suo trattato,sia stata usata appunto per indicare che si trattava di un
libro sul far di conto. La scuola d’abaco durava un biennio e
successivamente coloro che intendevano dedicarsi al commercio andavano a
fare pratica presso una compagnia mercantile. La documentazione
pervenuta ci permette di ricostruire programmi e metodi di insegnamento
delle scuole d’abaco. Si possono ipotizzare almeno tre livelli di
insegnamento.Nel primo, più elementare, si insegnavano la lettura e
scrittura dei numeri con il sistema indoarabico, la rappresentazione dei
numeri con le mani e le relativa tecniche per eseguire semplici calcoli,
gli algoritmi per eseguire le operazioni, il calcolo con frazioni, la
regola del tre, il sistema di monete, pesi e misure, qualche nozione di
geometria pratica. Un secondo livello nel quale venivano insegnate le
tecniche relative alle operazioni commerciali era previsto per coloro
che dovevano esercitare nell’ambito del grande commercio internazionale.
Il terzo livello, infine, era riservato agli amatori della matematica e
alla formazione dei maestri d’abaco. In esso venivano insegnate
l’algebra, questioni di teoria dei numeri e venivano affrontati anche
problemi mercantili di tipo più difficile. Gli stessi maestri d’abaco
avevano livelli di preparazione assai diversi tra loro, come si desume
anche dai trattati che essi ci hanno lasciato. Gli argomenti del
programma erano suddivisi in unità didattiche dette mute. La
lettura e la scrittura dei numeri costituivano una muta, l’apprendimento
delle tabellone della moltiplicazione ne formava un’altra: la
moltiplicazione e la divisione tra numeri naturali erano suddivise in
più mute a seconda del numero di cifre del moltiplicatore e del
divisore. Gli scolari passavano da una muta alla successiva solo quando
dimostravano piena padronanza delle tecniche insegnate in quella
precedente. L’insegnamento era basato sulla ripetizione di numerosi
esercizi, sia scritti che orali.La diffusione dell’insegnamento
dell’abaco provocò anche la compilazione di testi che oggi chiamiamo
trattati d’abaco. Questi, pur traendo ispirazione dal liber abaci,
erano di solito meno voluminosi, più elementari e scritti nella lingua
volgare parlata. Venivano generalmente composti da maestri d’abaco,
anche se ce ne sono pervenuti alcuni scritti da mercanti, artisti o
semplici cultori.Questi testi presentano notevoli aspetti di omogeneità
e sono caratterizzati dalla presenza di un adeguato numero di problemi
di carattere mercantile.La caratteristica che colpisce maggiormente il
lettore moderno è la mancanza di qualunque simbolismo matematico
all’infuori delle cifre usate per i numeri. I trattati erano destinati a
tutti coloro che avessero la necessità di rivedere alcune nozioni o
risolvere problemi,magari anche più difficili di quelli
incontrati a scuola. Il più antico trattato d’abaco risale al 1290
circa e porta il titolo “lo livero de l’abbacho secondo la oppenione
de maiestro Leonardo de la chasa degli figliuogle Bonaçie da Pisa”,
attualmente conservato nella Biblioteca Riccardiana di Firenze.La
diffusione e l’importanza dei trattati d’abaco sono testimoniate non
solo dal notevole numero che ne rimane ancor oggi, ma anche dal fatto
che il primo testo di matematica ad essere stampato in Italia fu proprio
un trattato d’abaco: “Aritmetica di Treviso”, di autore anonimo,
pubblicata a Treviso nel 1478.
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Questione
filosofica: lo zero acquista l’identita’ di numero
Lo zero, come numero,
è un’invenzione della matematica indiana, portata in Occidente solo dopo
l’anno Mille dagli arabi. In Italia, invece, lo zero fu accolto da
Fibonacci, il quale, introducendolo nelle sue opere intorno al XIII
secolo, lo diffuse in tutto il paese. Furono poi gli indiani a dare
dignità di numero allo zero, intorno al IX secolo d.C. e al culmine di
un processo di riforma e di sintesi delle loro matematiche. Si tratta
davvero di un’invenzione di grande importanza. Infatti. Ma, per
comprenderla appieno, occorre dire che zero, in matematica, non ce n’è
uno solo. O meglio, che esistono due concetti di zero: lo “zero
operatore” e lo “zero mediale”.
Lo “zero operatore” è
una cifra che non designa alcun numero, ma che posta alla destra di un
altro numero, per esempio 12, gli fa assumere un valore dieci volte più
grande:120. Lo “zero operatore” è un semplice moltiplicatore.
Nel numero 102,
invece, il ruolo dello zero, 0, è piuttosto diverso. Perché ponendo 0
tra 1 e 2, indico che solo una parte (10) è stata moltiplicata per
dieci,l’altra parte, 2, è rimasta inalterata. Questo zero lo chiamiamo
“zero mediale” e indica l’assenza di una moltiplicazione delle unità per
la base 10, indica l’assenza delle decine. E’ questo zero (mediale) che
evoca in modo più diretto il concetto di niente o addirittura di
nulla. Dopo un secolo e più di uso dello zero, il grande
matematico Mahavira inizia a studiare lo zero e a riconoscere che ha la
dignità di un vero numero e non è, semplicemente, l’assenza di numeri.
Mahavira iniziò a verificare come si comporta lo zero rispetto alle
quattro operazioni. Se aggiungo zero ad un numero, per esempio 2, questo
numero non aumenta. Se sottraggo = ad un numero, questo numero non
diminuisce. Se moltiplico 2 per 0, ottengo 0. Mahavira sostiene che se
divido il due o qualsiasi altro numero per 0, esso resta inalterato.
L’errore sarà corretto nel XII secolo da un altro grande matematico
indiano, Bhaskara, il quale sostiene che un numero diviso per 0 è una
quantità infinita. Gli Arabi appresero della dignità matematica che ha
il numero zero e ne portarono l’uso e il concetto in occidente. Gli
Arabi lo chiamavano sifr, che significa vuoto. La parola
diventerà la base etimologica del nostro “cifra”. Ma il suo contenuto
concettuale, il nulla, creava seri problemi nella cultura occidentale. E
forse fu per questo che Fibonacci, nel XIII secolo, preferì dargli il
nome latino di zephirum. Ciò però non servì a mitigare le vere e
proprie resistenze alla diffusione del numero zero da parte delle
autorità ecclesiastiche. Lo zero evoca il concetto di vuoto e di niente,
e questo concetto risulta molto delicato per la teologia cristiana che
ha speso molto tempo e molte fatiche intellettuali nel tentativo di
conciliare le sue due eredità culturali: il pensiero filosofico dei
greci e il monoteismo religioso degli ebrei. Nella filosofia dei greci
il vuoto e il nulla sono aborriti. E il dio dei greci non crea il mondo
dal nulla ma piuttosto trasforma il Caos nel Cosmo. Nella religione
degli ebrei invece dio crea il mondo ex nihilo, dal nulla. Le
posizioni di partenza delle due eredità culturali dei cristiani
risultano davvero difficili da conciliare. La teologia cristiana aveva
faticosamente rielaborato il concetto di niente, e ora gli Arabi, con il
loro zero portatore matematico del niente, venivano a disturbare il
delicato equilibrio raggiunto. Di qui le diffidenze e le resistenze alla
diffusione dello zero con dignità di numero che si sviluppano
nell’occidente cristiano per alcuni secoli.Lo zero vincerà ogni
resistenza solo nel Rinascimento. E parteciperà da protagonista alla
nascita della nuova scienza. Quanto al concetto di niente, esso è
ancora oggetto di discussione.
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Bibliografia:
-Vincenzo Vianello,”Luca
Paciolo”, Cacucci editore
-Mario Livio, “La
sezione Aurea- storia di un numero e di un mistero che dura da tremila
anni”, Rizzoli editore
-Lettera Pristem
n^21-1988
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