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Tommaso Moro :
utopia e politica
di
Elvira Malanga
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TOMMASO
MORO: UTOPIA E POLITICA
Per secoli l’utopia è
stata definita un progetto politico disegnato dalla fantasia e del
tutto estraneo alla sfera razionale. Sicché, anche quando politologi e
sociologi sono stati costretti ad ammettere che le strabilianti
intuizioni di alcuni tra i più famosi utopisti (da Platone “Repubblica”
a Dante “Monarchia”, da Campanella “Città del sole” a Swift “Viaggi di
Gulliver” e a Wells “I primi uomini sulla luna” – tanto per fare
qualche esempio-) hanno trovato, sia pure in un futuro molto lontano,
una qualche forma di attualizzazione, l’avvenimento è stato liquidato
come “pura coincidenza”, figlia del caso. Nessuno ha ritenuto di potere
ammettere che l’immagine di una realtà fuori da quella “positiva”
potesse essere la proiezione di un modello di società elaborato dal
raziocinio.
L’evoluzione del concetto di utopia come anticipazione non immaginaria
di un radicale rinnovamento politico, di là da venire ma che scaturirà
da “previsti” mutamenti che metteranno capo a nuove condizioni
storiche, può essere da noi seguita grazie al fiorire, soprattutto in
Italia a partire dall’immediato secondo dopoguerra, di un diffuso
interesse e di più approfonditi studi sulla filosofia inglese del
Rinascimento e sulla contestuale, lenta affermazione della lingua
volgare in terra d’oltremanica. Tra la traduzione di opere e la
pubblicazione di saggi e articoli, lo scrittore che finisce più spesso
sotto la lente di ingrandimento dei nostri studiosi è Sir Thomas More
(1478-1535), presto noto fra noi come Tommaso Moro. E non solo e non
tanto per riprendere il discorso sui rapporti tra il suo pensiero e la
cultura italiana, ma soprattutto per rileggere la sua opera maggiore,
l’“Utopia”, allo scopo di rinvenirne le tracce di quella “riforma”
sociale, politica e istituzionale che, non essendo il parto di una vana
fantasia, sposta l’angolo visivo dell’osservatore dal regno
dell’impossibile al piano del futuribile. |
Alla luce di questa premessa, può essere più agevole
comprendere come, tra gli utopisti che hanno fatto scuola perché più
“credibili” proprio in virtù del fondamento razionale e scientifico
della costruzione del loro “regno ideale”, Tommaso Moro occupi un posto
di primo piano. Invero, alla sua fortuna contribuì anche il fatto che il
panorama letterario inglese, dopo Chaucer e prima di Shakespeare, non
annoverasse altri personaggi illustri. Questa circostanza spiega il
notevole ritardo con cui l’Umanesimo si affermò in Inghilterra rispetto
al continente e in particolare all’Italia, che poteva vantare come
precursore un poeta dello spessore di Francesco Petrarca. E giustifica
anche l’immediato successo dell’“Utopia”, pubblicata dal More nel 1516,
benché fosse scritta in latino (sarà tradotta in inglese solo nel 1551).
L’opera, che rappresenta il maggior contributo alla storia letteraria
dell’epoca, diventa, per giudizio pressoché unanime dei critici, modello
di ogni futura “utopia”. Mentre il suo autore - filosofo, letterato,
statista, deputato, diplomatico, teorico della politica - viene chiamato
a sedere in prima fila tra la schiera dei riformatori sociali.
Inviato nel 1515 ambasciatore a Parigi da Enrico VIII (che nel 1529 lo
nominerà Lord Cancelliere, ma sei anni dopo lo farà finire sul
patibolo per non aver voluto, da fervente cattolico, riconoscere in
Parlamento il divorzio richiesto dal re per sposare Anna Bolena), il
Moro innesta su questa esperienza diplomatica la finzione della sua
Utopia, in cui egli espone le proprie idee filosofiche e politiche
facendole enunciare da un filosofo, tal Raphael Hythloday, che sarebbe
stato al seguito di Amerigo Vespucci nei suoi viaggi in America e che
riferisce ciò che avrebbe conosciuto in un’isola rimasta ignota, detta
appunto Utopia.
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Il “romanzo filosofico”di Moro
prende il via da un’aspra critica all’ordinamento politico e sociale
dell’Inghilterra, soprattutto là dove questo prevedeva la pena di morte
per coloro che si rendevano responsabili di furti, mentre tollerava che
i ricchi proprietari terrieri sfruttassero, senza il rispetto di alcuna
regola, lo stato di estremo bisogno dei contadini per arricchirsi
spudoratamente oltre misura. Come se ciò non bastasse, proprio in quegli
anni era in atto un processo di trasformazione dell’agricoltura che
procurava gravissimi danni ai contadini: la sostituzione violenta della
coltura dei cereali con i pascoli per l’allevamento di montoni, che
garantiva introiti maggiori alle tasche dei latifondisti. Gli
agricoltori, cacciati dalle terre, erano costretti a chiedere
l’elemosina.
Di
fronte a queste palesi ingiustizie e contraddizioni, il Moro,
umanisticamente, si domanda se la pena capitale non sia contraria a ogni
principio umano e religioso e perché mai essa non possa essere
sostituita con una condanna meno estrema. Allo stesso modo, si chiede se
sia tollerabile, in una società che voglia dirsi civile, che i ricchi
maltrattino i poveri e se, invece, non sia più giusto eliminare la causa
dello sfruttamento abolendo la proprietà privata. E a coloro che gli
obiettano che, se tutti i beni della società fossero in comune fra i
cittadini, non ci potrebbero essere prosperità e progresso, il Moro
risponde: si vede che non avete visitato i paesi di Utopia.
Seguendo il modello della “Repubblica” di Platone, il Moro
comincia col descrivere i costumi degli abitanti dell’isola di Utopia,
dove si è realizzata una vera democrazia. In questo regno meraviglioso,
la proprietà privata non esiste. La terra è coltivata a turno dagli
abitanti - uomini e donne -, che vengono avviati all’agricoltura e,
contemporaneamente, a un mestiere. Tutti debbono essere preparati a
svolgere lavori manuali. Ne sono esenti soltanto i magistrati e coloro
che esercitano professioni dotte. Appositi funzionari, detti “sigofranti”,
vigilano affinché ogni cittadino si dedichi alla propria attività col
dovuto impegno, rifuggendo sempre dall’ozio. L’orario di lavoro è di
sole sei ore al giorno: il resto del tempo può essere dedicato ad
ascoltare conferenze oppure al divertimento.
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In
questo stato ideale, il sovrano è scelto dal popolo e può essere deposto
non appena cominci a tendere verso la tirannia. La sua potenza,
peraltro, è limitata dalla legge divina e naturale; legge che deriva dal
suo stesso fine intrinseco, universalmente riconosciuto come valore
massimo: la giustizia. Ogni interesse particolare è subordinato al bene
comune e alla utilità di tutti i cittadini: diversi tra di loro per
peculiarità personali, uguali per diritti e doveri. Tutti sono ricchi e
poveri allo stesso tempo: il danaro non esiste. L’oro e l’argento non
hanno alcun valore speciale: sono
comuni metalli, utili per costruire qualsiasi oggetto. Mettendo al
bando tutte le follie umane, gli abitanti di Utopia ripudiano la guerra
perché ritenuta offensiva della libertà degli altri popoli (proprio come
recita l’art.11 della nostra Costituzione). In linea con la posizione
ortodossa della chiesa cattolica romana, da lui difesa in ogni
circostanza, e fedele all’ autorità papale fino ad accettare per essa la
“ignobile e dolorosa morte” sul patibolo, il Moro fa raccontare a
Raphael che gli utopi hanno compreso che la ragione da sola non può
costruire per l’uomo il regno della perfetta felicità. Per perseguire
questo fine, essi integrano i principi razionali con quelli religiosi,
quali l’immortalità dell’anima e la beatitudine eterna che Dio assicura
a tutti coloro che in vita hanno operato secondo la sua legge.
Nell’isola situata nei mari del Nuovo Mondo, dove l’uomo ha realizzato
le condizioni per fondare una comunità altruistica, non solo l’attività
spirituale si concilia con quella manuale e il tempo libero con quello
comunitario, ma gli stessi precetti cristiani non impediscono la ricerca
del godimento materiale. Anzi, gli utopi ritengono che la felicità
dell’uomo consista proprio nel piacere; un piacere sano e onesto,
quale può essere quello del mangiare e del bere moderatamente. Il
massimo piacere rimane tuttavia quello della mente. |
Con
Tommaso Moro, dunque, l’utopia esce dal limbo di quella letteratura
minore, ritenuta tutt’al più dilettevole ma priva di ogni riflesso
sociale e politico, e sale al rango di vero e proprio modello di
repubblica, che ogni uomo vorrebbe veder realizzato per sperimentare un
percorso di vita nuovo, guardando al futuro senza essere condizionato
dal passato. A meno che non si tratti del “bel tempo che fu”, rievocato
come un “altrove” in grado di fungere da parallelo con il presente e da
stimolo critico per tutti quelli che sono impegnati a costruire un mondo
migliore. In questo senso, le proposte di Moro concorrono, nel
territorio della cultura umanistico-rinascimentale, al superamento degli
ideali politici (e religiosi, probabilmente suo malgrado) del Medioevo.
Il rovesciamento dei valori
prospettato da Utopia si inquadra perfettamente nel contesto dello
sforzo di rinnovamento complessivo dell’uomo, auspicato dai pensatori
più illuminati dei primi decenni del Cinquecento. Sul piano strettamente
politico, tale sforzo getta il seme della dottrina filosofico-giuridica
del Giusnaturalismo (fondato, nella prima metà dei Seicento,
dall’olandese Grozio e sostenuto in Inghilterra da Hobbes), che postula
l’esistenza di un diritto naturale (ius naturale) intrinseco alla
ragione umana e anteriore a un diritto positivo voluto dagli uomini.
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A livello storiografico, rimane
indubbiamente in piedi il dilemma se l’utopia, con tutte le sue
controverse definizioni, sia il disegno di una società perfetta,
staccata però dal mondo reale, “vera” e tuttavia inesistente, oppure una
proposta, seria e convinta, di riforma complessiva dello Stato, dove gli
indirizzi politici siano informati sempre alla ricerca del benessere di
tutti i cittadini e dove esista la massima tolleranza religiosa.
Ma al di là del prevalere dell’uno o
dell’altro corno del dilemma, bisogna riconoscere che Tommaso Moro, con
la sua interpretazione dell’utopia come previsione di un mondo nuovo,
fittizio ma immaginato come realizzato (o realizzabile), ha dato
all’uomo una speranza e insieme una certezza: il futuro, benché nessuno
sia in grado di conoscerlo, può essere anticipato attraverso un modello
di vita ben definito, che filosofi e politici sono chiamati ad elaborare
e a “realizzare in astratto” per valutarne anticipatamente le
conseguenze e coglierne gli aspetti più vantaggiosi per l’intera
comunità.
Così, “l’isola che non c’è” si
materializza, diventa luogo fisico reale (rinnegando la sua stessa
etimologia: utopia=non luogo), si presenta come progetto attuabile e si
pone come punto di riferimento per chiunque voglia concorrere ad
accelerare il motore della storia in senso riformistico. Senza perdere
mai di vista la centralità dell’uomo. |
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