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L'algebra del linguaggio
di
Antonio Mastantuoni
Antonio Mastantuoni |
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L’algebra del linguaggio
Queste note riflettono l’oggetto
di cui si occupano. Sono procedure e concernono procedure. Sono
operazioni condotte attraverso rapporti, relazioni e affinità tra eventi
e concetti, tra lettere e numeri, tra diverse lingue e diverse
scritture. Riguardano somiglianze e corrispondenze (combinazioni) che se
sembrano essere, da una parte, il frutto del caso, rimandano,
dall’altra, al medesimo contesto storico, il secolo XVI.
Schemi
illustrativi dei postulati di Peano
1.1 Iniziamo dalla parola
“algebra”, che, non a caso, indica un “calcolo letterale”. E’ una
scienza delle lettere, oltre che dei numeri? Il termine è di origine
araba, anche se ne si ipotizza una provenienza babilonese trasmessa agli
Arabi attraverso una mediazione siriana o aramaica. Tradizioni diverse
si incontrano e si influenzano reciprocamente nel Vicino e Medio
Oriente. Il termine compare nel trattato di Muhammad ibn Mūsa
Al-Khwārizmī, Kitāb al-giabr wa ‘l muquābalah, il cui titolo
rimanda a due operazioni. a) Al-giabr indica una sorta di
“riempimento”, di “restauro”, ed è riferito anche alla cura delle
lesioni ossee. “Algebrista” è detto, nel Don Chisciotte, il
medico addetto a questo compito. L’operazione definisce l’azione del
“rimettere al posto giusto”, del ristabilire una normalità, del “sanare”
una “frattura”. Nei termini della risoluzione numerica delle equazioni,
la parola indica una semplice operazione matematica: “aggiungere ai due
membri di un’uguaglianza dei termini uguali a quelli che risultassero
preceduti dal segno negativo”. L’operazione algebrica “obbliga” (come
una forza che impone) ciascun termine di un’equazione ad occupare il suo
debito posto e, quindi, ad eliminare un fattore negativo, “difettoso”.
b) Muquābalah è l’operazione consistente nel ridurre i termini
simili ed indica in sostanza un “soppesare”, un “confrontare”, un
“equiparare”. La si potrebbe tradurre anche nei termini di un moderno
“computare”, inteso tuttavia alla luce di un giudicare, valutare,
ragguagliare una cosa con un’altra: un calcolare al fine di conseguire
il “giusto valore”.
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Alberi sefirotici
del mondo dell’emanazione.
Hayyim Vital, Sefer
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La funzione dell’algebra, in
origine e nella sua storia, non si riduce ad un semplice calcolo
numerico. Riguarda, piuttosto, delle procedure da compiere. Indica
l’operatività implicita in un calcolo: riempire e ridurre, reintegrare
un oggetto dislocato e raccogliere affinità. Una capacità operativa che
si potrebbe tradurre, in termini teologici, come restaurazione
(tradizione) e redenzione (innovazione).
Un altro termine, prossimo
all’“algebra”, è “algoritmo”. Deriva dal nome stesso di Al-Khwārizmī e
designa, con maggior forza e determinazione, l’atto di un’operazione la
cui potenza, efficacia e prestigio “si possono giudicare dalla maggiore
o minore trasformabilità in una sequenza automatica” (Sinisgalli).
Abaco
Stiamo parlando di calcoli e di
procedure, termini che nel linguaggio ordinario sono spesso associati a
qualcosa di astratto e di complicato. Eppure essi si riferiscono e
rimandano sempre ad un’intelligenza operante. A.A. Markov, a cui si deve
peraltro una formalizzazione del concetto di algoritmo equivalente a
quella di Turing, scrive: “Le astrazioni sono indispensabili nella
matematica; e tuttavia non dovrebbero essere perseguite per se stesse,
né condurre a un punto da cui non c’è discesa sulla “terra” ”.
L’aggettivo “letterale”, proprio del
calcolo algebrico, rimanda all’uso delle lettere atte a rappresentare
grandezze numeriche (dall’algebra retorica all’algebra simbolica di
Viète), ovvero una classe di oggetti (un oggetto strutturato). Noi lo
intendiamo nel senso di un’operatività non ridotta ad una semplice
sequenza automatica, come una procedura in cui l’atto del “computare”
compendi anche un “giusto valore”. Pensiamo ad un’operatività non solo
eseguente ma soprattutto parlante, che sia cioè in grado di dire
(rappresentare) il senso del suo operare.
L’arte del risolvere equazioni
tradotta in “pura regola computazionale” determina, secondo Zellini,
l’affrancamento dal numero pensato dai Greci geometricamente e dispiega
“nuove e inaspettate potenzialità euristiche”, liberando “la virtù
ermetica della formula simbolica”. In questo prevaricare della regola
sul numero e su tutto ciò che esso indica in termini simbolici (Pitagora
su tutti) si nasconde un “motivo di ambiguità e di tormento irrisolto”,
consistente proprio nel limite del “principio di delega” a cui noi
affidiamo le procedure. “Fino a che punto la facilitazione dei processi
euristici può fondarsi su un principio di delega che ci separa da
un formalismo che opera per nostro conto? (…) Siamo noi a capire in
anticipo tutto il significato o l’intenzionalità insiti nelle procedure,
o piuttosto le stesse procedure esprimono autonomamente qualcosa che il
soggetto è in grado di apprendere solo a posteriori”. Siamo in
presenza di un calcolo -quello algebrico- che non è puramente numerico.
E’ compiuto attraverso simboli che hanno la funzione di facilitare la
stessa operazione del calcolo, ovvero di accrescerne e di ampliarne le
potenzialità secondo determinate procedure. All’interno di tale calcolo
si determinano le possibilità di un’intelligenza che non solo delega ad
esso l’esecuzione di un compito ma gli affida anche una potenzialità,
una ricchezza d’essere, allo scopo di servirsi dei suoi risultati.
“Pensare al posto di colui che se ne serve” rappresenta, in fondo, un
problema tipico delle nostre moderne società, una questione vitale per
le attuali democrazie. Il Cinquecento non elabora ancora quel “principio
di delega” su cui si fonda la nascita del concetto moderno di
democrazia; eppure dà inizio a quelle moderne teorie dell’assolutismo
(vedi J. Bodin) secondo le quali la funzione e il fondamento stesso del
potere -appunto (sovrano) assoluto- consistono nel dar legge ad altri ma
non a se stesso.
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1.2 Torniamo alle
nostre procedure, quelle che stiamo svolgendo per somiglianze e per
corrispondenze.
Il Cinquecento ha inizio all’insegna di un
testo, quello Sacro, e delle sue possibili letture ed interpretazioni.
La Riforma protestante ed i suoi riverberi sul mondo cattolico e sulla
cristianità occidentale lo testimoniano. Un mondo affollato di segni e
di linguaggi caratterizza il secolo. Dal libro sacro a quello naturale e
profano, diverse lingue, scritture ed alfabeti si intrecciano sullo
sfondo di una medesima esigenza ermeneutica: magia e astrologia, logica
e scienza della natura, medicina ed alchimia. Antiche e nuove procedure
del sapere sono riscoperte ed intraprese con le traduzioni latine
dell’ermetismo egizio (da Marsilio Ficino a Pico della Mirandola – sec.
XV) e poi ampliate nel secolo successivo: dagli studi di mnemotecnica
alla ripresa della logica del mistico catalano Raimondo Lullo, dalla
dottrina delle segnature agli scritti di fisiognomica, chiromanzia,
metoscopia o di phytognomonica, dalla cabala ebraica e cristiana alla
steganografia, fino agli studi sulla prospettiva di Albercht Dürer. Sono
tutte forme diverse di scrittura segreta, esposizioni esoteriche
espresse con un linguaggio in chiave, non lontane nello spirito dalla
forma metaforica e segreta con cui Tartaglia presenta la risoluzione
delle equazioni algebriche, ben attento a tutelare le sue scoperte e a
non divulgarle a chi, appunto, non ne sia all’altezza . Sono procedure
umane che pongono in questione il rapporto che l’essere umano
intrattiene con esse. Sono dette “arti”, da quella mnemotecnica di G.
Bruno all’Ars Magna di G. Cardano, ma non sono accessibili a
tutti. Sono tecniche, ma riguardano, come quella di Dürer, la
prospettiva, ovvero quella forma di rappresentazione del reale che è a
suo modo espressione di un linguaggio simbolico . Il senso di
queste procedure, propriamente umane e per questo aperte tanto al vero
quanto al falso, ovvero adatte solo a chi correttamente le intende, ce
lo suggerisce Bruno. La sua arte della memoria è detta “De umbris
idearum . L’ombra rivela un paradosso: ha una specificità che non
è un “in sé”. Non si qualifica né come tenebra e né come luce, ma
traccia dell’una o dell’altra: è sempre o nell’una o nell’altra. E’,
quindi, una traccia che non può essere mai nel luogo di cui è traccia.
Se c’è traccia della tenebra lo è nella luce; se c’è traccia della luce
lo è nella tenebra: non c’è traccia della luce nella luce, né c’è
traccia della tenebra nella tenebra. L’ombra possiede una specificità
che è sempre “per altro”. E’ infatti una traccia: “traccia di ciò che
può essere veramente o falsamente”. “Nell’orizzonte della luce e della
tenebra -scrive ancora Bruno- non possiamo certo intendere altro che
l’ombra. Questa è nell’orizzonte del bene e del male, del vero e del
falso. Qui è ciò che si può far diventare bene o male, falsare o
conformare alla verità: qui è ciò che tendendo da una parte si dice
essere nell’ombra di un principio, tendendo dall’altra in quella del suo
opposto”. L’uomo dimora
in questa ombra che è insieme “volto” (”facies”) -manifestazione
sensibile- e “lettera” (“littera”) -segno, carattere, grámma, quasi a
voler indicare un percorso la cui verità non è mai garantita a priori ma
dipende da chi ne intraprende il cammino. L’ombra riflette l’essere
umano come “animale simbolico” (ben altro dall’aristotelico “animal
rationale” e ben differente dal “zoon logon echon”).
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1.3 Il 1492, data storica
per eccellenza, è anche l’anno della espulsione degli ebrei dalla
Spagna. Il Cinquecento è contrassegnato da questo nuovo esilio del
popolo ebraico che si aggiunge -nel contrasto dei termini ma non dei
fatti- alla creazione dei ghetti (la bolla Cum nimis absurdum del
nostro conterraneo Paolo IV è del 1555). “Ghetto” ed “esilio”: ritornano
le coordinate storiche di un popolo, quello ebraico, che è insieme
“dentro” e “fuori” dalla storia. I re cattolici di Spagna emanano un
provvedimento che lascia loro poche possibilità di scelta: entro poche
settimane essi possono convertirsi, oppure liquidare i propri beni ed
emigrare. Nuove comunità si formano nelle città del Mediterraneo
orientale, sotto dominazione ottomana, nonché nell’Italia
centro-settentrionale (Ferrara, Ancona, Livorno, Mantova, Venezia,
ecc.). Continua e si accentua il fenomeno del “marraneismo”: l’ebreo
convertito alla fede cattolica ma che continua a professare in segreto
il rito mosaico. Singoli ebrei ed intere comunità, in tutta l’Europa
cristiana, presentano un’identità religiosa ambigua, doppia, segreta.
Gli ebrei apostati, coloro che simulano perfettamente di aver accettato
la fede cristiana, sono considerati i più pericolosi. Si ripropongono
nuove forme di eresia: un professare senza credere, tipico di chi vive
quella situazione di incertezza caratteristica dell’esilio (“fuori”), di
chi è nell’ombra ma si prepara (dal “di-dentro”) al riscatto ed alla
redenzione. L’esodo dalla Spagna costituisce un evento importante negli
sviluppi della mistica ebraica. A Safed, in Galilea, Y. Luria insieme al
grande cabalista di origine sefardita, M. Cordovero imprimono un
mutamento radicale alla storia della Kabbalah. Secondo uno dei più
importanti studiosi della mistica ebraica, G. Scholem, la Kabbalah
luriana riflette in pieno la condizione degli ebrei dopo il 1492: essa
non è altro che un’”interpretazione mistica dell’esilio e della
redenzione”, un “grande mito dell’esilio”.
La Kabbalah (”tradizione”) indica
il pensiero della mistica ebraica e, com’è tipico di ogni misticismo,
presenta, in perenne equilibrio, la tradizione e l’innovazione, assomma
in sé queste due tendenze contraddittorie, le pone in tensione fra loro
e le integra reciprocamente. L’aspetto caratterizzante questa mistica
consiste nel potere simbolico dell’alfabeto ebraico. Le lettere, la loro
stessa realtà grafica, rappresentano i caratteri della scrittura divina
del cosmo. Tra i testi più importanti di questa corrente troviamo il
Sefer ha-zohar (“Il libro dello splendore” - tardo Duecento) ed il
Sefer Yetsirah (“Il libro della formazione” o “della creazione” -
VI-VII sec. d.C.), la cui edizione principe appare a Mantova ad opera di
Ya’aqov ha-Kohen da Gazzuolo nel 1562. Quest’ultimo testo è chiamato
anche “il libro delle lettere di Abramo nostro padre” ed inizia così:
“Trentadue meravigliosi sentieri di sapienza tracciò Iddio Signore delle
schiere, Dio d’Israele, Dio vivente, Dio onnipotente, il sommo e
l’eccelso colui il cui nome è Santo (Is. 57.15), Creò il suo mondo
con tre registri: con la scrittura, il computo e il discorso”. Tutto il
reale è attraversato da trentadue sentieri di saggezza che corrispondono
ai dieci numeri fondamentali e alle ventidue lettere dell’alfabeto
ebraico. Il moto di una ruota simbolica combina fra loro il ritmo dei
numeri e delle lettere.
Una vera e propria scrittura del
cosmo simboleggia l’atto della creazione: “Ventidue lettere: le incise,
le intagliò, le soppesò, le permutò, le combinò e con esse formò l’anima
di tutto il creato e l’anima di tutto ciò che è formato e di tutto ciò
che è destinato a essere formato. (…)”. Ma nel testo si accenna anche ad
una combinazione dei numeri, ad un calcolo, che la bocca non può
pronunciare, né l’occhio vedere, né l’orecchio sentire, quasi che si
trattasse di un calcolo molto complesso, ai limiti delle umane
possibilità: “(…) Due pietre fanno 2 case, tre pietre fanno 6 case,
quattro pietre fanno 24 case, cinque pietre fanno 120 case, sei pietre
fanno 720 case, sette pietre fanno 5040 case. Da qui in avanti esci
fuori e calcola quello che la bocca non può dire e l’orecchio non può
udire”.
Al vertice del pensiero di Luria si
trova la dottrina dello Tzimtzùm (termine che vuol dire
“concentrazione” o “contrazione”, ma che sarebbe meglio tradurre con
“ritiro” o “ritorno”) che indica il ritrarsi di Dio fuori da ogni luogo,
nel proprio essere. Si tratta di un processo di contrazione di Dio da
cui è resa possibile l’esistenza dell’universo. Il primo atto di Dio
-scrive Scholem- “non è un atto di rivelazione, ma un atto di
occultamento e di limitazione. Solo nel secondo atto Dio, con un raggio
della sua essenza, procede fuori di Sé e dà inizio alla sua rivelazione,
o al suo dispiegarsi come Dio creatore in quello spazio primordiale che
ha prodotto in Se stesso”.
Questo ritrarsi-contrarsi di Dio,
insieme ad altre due importanti idee teosofiche sviluppate da Luria -la
dottrina della cosiddetta Sheviràth hakelìm, la “rottura dei
vasi”, ed il Tiqqùn, la dottrina della guarigione o della
riparazione della macchia provocata da quella rottura- rappresentano,
secondo Scholem, “il più profondo simbolo pensabile dell’esilio”. Una
condizione, questa dell’esilio, che sembra appartenere ad ogni creatura
vivente: “tutte le cose in qualche misura portano in sé una frattura, e
ogni cosa esistente ha una certa manchevolezza. (…) Nulla rimane al suo
posto, nulla resta come sarebbe dovuto essere, e più niente quindi è
nella sua debita sede. Tutto è in esilio”.
Su di un versante completamente diverso
da quello algebrico-matematico, qui, nella mistica ebraica di Safed,
ritornano, in una diversa lingua e combinate fra loro, lettere e numeri,
nonché la condizione di una “frattura” e la missione dell’esilio intesa
quale evento imprescindibile del ristabilimento di un ordine, opera di
“guarigione” o di “riparazione”. Anche qui si tratta di un senso
infinito dell’operare umano, dell’atto di un “computare” che va ben
oltre la dimensione letterale delle parole o il puro calcolo numerico.
Lo immaginiamo come una condizione d’esilio -di dislocazione- che si
trova dentro, nascosta, nell’operazione numerica e nei sensi delle
nostre parole, come una particolare algebra del linguaggio in grado di
ascoltare l’inascoltato e di calcolare l’indecifrato, e di farlo ben
oltre la nostra comune visione delle cose.
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1.4
All’interno degli odierni sviluppi dei principi dell’algebra, nella
computatio algebrica e nel calcolo su grande scala, si nasconde
forse “quell’enorme e geniale artificio” che a N. Weiner -uno dei padri
della cibernetica- rammenta la leggenda dei suoi avi, quella del Golem?
Figura classica della religiosità popolare ebraica, ambiguo punto
d’incontro tra magia e misticismo, il Golem assume in questa tradizione
folklorica diversi significati. Inizialmente inteso come l’amorfo,
l’informe, associato anche alla figura di Adamo, gli si attribuiscono
poi le sembianze di un umanoide al servizio del suo creatore o di un
vero e proprio automa. Una sua significativa ripresa si ha nell’ebraismo
(chassidismo) tedesco e polacco del sec. XVI (una leggenda ne
attribuisce una sua costruzione al famoso rabbino e mistico Yehudà Löw
ben Betzal’èl, detto il Maharal di Praga). Nella creazione del Golem le
lettere dell’alfabeto svolgono un ruolo centrale. I nomi di Dio e le
lettere, che sono, come si è visto dal libro Yesirah, le
segnature dell’intera creazione, assumono una misteriosa potenza magica
e, in alcune leggende, si narra che sulla fronte del Golem sia scritta
la parola emet (“verità”), la quale può trasformarsi -quasi fosse
un’inversione delle lettere- in met (“morto”) quando si cancella
dalla prima la alef iniziale con cui è scritta. Il Golem, che in
sostanza racchiude in sé la forza creatrice dell’uomo (nelle sue più
antiche formulazioni, mistiche più che magiche, tale forza non serve,
tuttavia, ad uno scopo pratico, ma indica semplicemente che l’adepto ha
raggiunto il rango di un creatore), simboleggia l’esito di un atto
creativo che, tuttavia, può rivolgersi contro il suo creatore, fino ad
indicare, in alcuni contesti, una vera e propria colpa del creatore,
tale da volgersi addirittura contro lo stesso Dio.
“Per me -scrive Weiner- la logica,
l’apprendimento e ogni attività mentale sono sempre stati
incomprensibili come disegno chiuso e completo, e sono intelligibili
solo come un processo con cui l’uomo pone se stesso in rapporto
con quello che lo circonda. E’ la battaglia per l’apprendimento che ha
significato, e non la vittoria. A ogni completa vittoria fa
immediatamente seguito il crepuscolo degli dei, in cui lo stesso
concetto di vittoria si dissolve nell’attimo del suo raggiungimento”.
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1.5 Dall’algebra siamo passati al Golem, attraverso, forse, un salto un po’
arduo ed astruso. Abbiamo incontrato procedure tipicamente umane
effettuate in tempo d’esilio. Un tempo originatosi da un Dio-contratto,
ovvero nel segno di quel Dio nascosto (Dio che nasconde il suo volto) di
cui parlano, insieme ai testi della Kabbalah ebraica, B. Pascal e S.
Kierkegaard, M. Buber ed E. Wiesel. Si tratta di procedure numeriche e
linguistiche, di veri e propri “alfabeti parlanti” che coincidono,
paradossalmente, con “l’esilio della parola” (l’espressione è di A.
Neher). Creazioni umane che potrebbero rivolgersi contro il suo
creatore. Tecniche della memoria e tecniche del futuro che potrebbero
indurre a dimenticare. L’impresa prometeica dell’umano appare sempre ai
limiti delle sue possibilità, costretta ad attraversare l’immane sforzo
di Sisifo. L’uomo, se così si può dire, vuol far parlare la parola: le
attribuisce simboli, significati, sensi e quant’altro, solo perché si
accorge che la parola detta non gli basta, non esaurisce il suo
contenuto, è essa stessa complessa. E’ costitutivamente aperto ad una
cifra dell’ulteriorità che lo colloca però in una continua e direi
infinita ricerca ermeneutica, nella posizione di chi deve sempre
nuovamente calcolare, ri-computare, ri-operare. E’ questa un’algebra del
linguaggio che appare sempre dislocata tra computi e lettere, tra
calcoli e combinazioni, complessa coincidenza di complicatio ed
explicatio (Cusano). Sembra di essere di fronte a qualcuno o a
qualcosa che ci parla, che non sempre ascoltiamo o siamo capaci di
ascoltare e che tuttavia continua a parlare, a dire qualcosa. L’origine
del moderno calcolo digitale è l’abaco: lo immaginiamo come un calcolo
compiuto con le mani. L’orante è in fondo un pregante: preghiera è
proprio questo suo dire che resta quasi interdetto da un difficile
ascolto.
Il
pellegrino che guarda fuori dal mondo,
incisione colorata del XVII secolo (?). |
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