La catacomba è scavata nel vivo
del calcare tufaceo ed ha caratteri diversi da quelli che si
riscontrano nelle catacombe di Roma, per l’ampiezza e la
disposizione degli ambienti; tali caratteri la accostano piuttosto a
quelle di S.Gennaro dei poveri a Napoli e a quelle di Siponto.
La catacomba è a forma circolare con dieci arcosoli, cinque per
lato. Nel fondo della grande sala si apre un ingresso archivoltato
che immette in una seconda sala più piccola. ai cui lati in due
quadri limitati da cornice di stucco sormontati da uno stemma
episcopale su due altarini di pietra, sono affrescati, a sinistra,
l’Angelo Gabriele, a destra, la Vergine.
L’angelo è ripreso in ginocchio e reca nella sinistra un giglio
ornato da un nastro sul quale si leggono le iniziali dell’AVE:
A.G.P.D.T..
La figura dell’angelo è condotta con realismo, che appare vicino
alla maniera di dipingere dei naturalisti del ‘400, ma non è privo
di influenze di sapore locale.
Gli altarini non servivano per il sacrificio, ma per conservare le
reliquie o per collocarvi sopra lampade o altri oggetti sacri.
Sotto gli arcosoli si osservano sarcofagi in terracotta e alcuni da
coperchio in pietra a tetto spiovente. Il sarcofago in terracotta
mancante di coperchio, – lungo m. 1,85, alto m. 0,60 e largo m. 0,60
ad una estremità e m. 0,50 all’altra -, è fornito di epigrafe: IOA,
DOM che dal Taglialatela veniva letto: lOANNES DOMINUS oppure DOMNUS.
Sarebbe importante conoscere chi sia Ioannes Dominus che il
Taglialatela identificava con il Vescovo di Avellino, che esercitò
il suo ministero in questa città dal 1124 al 1131, anno della sua
morte. Lo Scandone invece osservava che il titolo di Dominus era
troppo, o troppo poco per un vescovo. Infatti un vescovo, non avendo
giurisdizione territoriale, non poteva essere qualificato come «il
signore della terra» né, d’altra parte, per indicare il suo
ministero del tutto spirituale, si sarebbe mancato di aggiungere al
suo nome il titolo di «pontifex» o «episcopio». In questa
considerazione lo storico attribuiva quei titolo al «signore»
diminatore della contea di Avellino ossia al conte Giovanni. A
conferma di ciò, lo Scandone fa notare come questo conte, nella
carta longobarda, si trova citato col nome e con il titolo che
nell’epigrafe: «ad palatium perrexit presentia domini Ioannis».
Il sarcofago, adoperato come loculo e introdotto negli arcosoli
scavati nel tufo, aveva forse il coperchio formato da tegoloni
compatti. La fabbricazione di codeste arche fossili deve aver
cessato nel Il sec. d. C., poichè raramente esse sono isolate nei
monumenti funerari del III sec., quando le arche sepolcrali si
facevano in tegoloni costruiti a cassettone e a capanna.
Il sarcofago porta un’epigrafe
pagana:
T. NONIO. T. F.
PROCULO
TI. NONII FORT
UNIUS ET. PROC
ULUS LIL. P. P. MMF.
così letta invece dal
Mancini e dal Taglialatela:
TITO NONIO TITI FILIO PROCULO
TITI DUO NONII FORTUNIUS ET PROCULUS FILII PATRI PIENTISSIMO BENE
MERENTI FECERUNT.
Nel coperchio, sull’orlo, sono le lettere D.M.S.
Su altro sarcofago è
incisa questa epigrafe:
D. M.
SECVND
NVTRITO INC
OMPARABIL
NA. SEC
B.
che il Mancini
legge: D. M. Secundo Nutrito
incomparabili Naevius Secundinus benemerenti posuit.